Autonomia, per le persone disabili, non vuol dire solo acquisire alcune competenze, ma riconoscersi adulti e sentirsi tali – spiega Valentina Cottone, tecnico della riabilitazione psichiatrica, psicologa clinica e della salute ed esperta dei processi di apprendimento, nonché educatrice della RSD Il Borgo dei Colori - Non significa “ fare tutto da soli ”, ma integrare le proprie competenze con quelle degli altri e saper chiedere aiuto.
Il testo " La disabilità mentale e la progettualità per il futuro " tratto dal giornale delle scienze psicologiche State of Mind, segnalatoci dalla nostra educatrice, offre un quadro completo su cosa intendiamo quando parliamo di disabilità mentale? L’AAMR (American Association on Mental Retardation) definisce il ritardo mentale come una disabilità caratterizzata da limitazioni significative, sia del funzionamento intellettivo che del comportamento adattivo, che si manifestano nelle abilità adattive concettuali, sociali e pratiche e che insorge prima dei 18 anni di età. L’ICD-10 ( International Classification of Disease) definisce il ritardo mentale come: una condizione di interrotto o incompleto sviluppo psichico, caratterizzata soprattutto da compromissione delle abilità che si manifestano durante il periodo evolutivo e che contribuiscono al livello globale di intelligenza, cioè quelle cognitive, linguistiche, motorie e sociali. Il ritardo può presentarsi con o senza altre patologie psichiche o somatiche. La disabilità mentale, quindi, è una condizione spesso congenita o che insorge nei primi anni di vita e che compromette molteplici ambiti della persona; i genitori di figli disabili affrontano, di conseguenza, fin dalla tenera età, molte difficoltà per accompagnare la crescita dei loro ragazzi.
La fatica dell’educazione e della cura diventano più pesanti con la crescita e lo sviluppo del figlio. Gli anni dalla nascita fino all’adolescenza, vengono utilizzati per ottenere un recupero motorio, sensoriale ed intellettivo. Nella prima infanzia, gli obiettivi principali sono quelli di favorire lo sviluppo delle competenze del bambino, il raggiungimento delle autonomie personali e dello sviluppo delle potenzialità, nell’ottica del miglioramento della qualità di vita. Con l’inizio della scolarizzazione l’obiettivo diventa, quando possibile, l’acquisizione degli strumenti di base della letto-scrittura. In ogni momento rimane, comunque, centrale, l’attenzione allo sviluppo dell’autonomia personale, sociale, comunicativa, privilegiandola ad altre acquisizioni fini a se stesse e non funzionali a tale scopo. In età adolescenziale si privilegia l’intervento di terapia occupazionale, in atelier socio-riabilitativi, con lo scopo di incrementare ulteriormente le abilità manuali, le capacità di auto-organizzazione e di problem solving, l’autostima collegata ai risultati concreti e visibili ottenuti in tali contesti. In questi anni vengono tenuti rapporti con tutti i soggetti organizzati che a diverso titolo possono far parte del sistema curante: scuola, associazionismo, volontariato, gestori di servizi (privato sociale) per sviluppare alleanze e sinergie. Nella vita adulta, in cui, il compito principale diventa l’emancipazione dai mezzi che la famiglia fornisce per il sostentamento, il disabile, invece, spesso continua a svolgere le proprie attività in situazioni protette costringendo la famiglia ad un mantenimento permanente. E’ in questa fase, quando non sembra vi siano prospettive e i genitori iniziano ad invecchiare che riemerge, in modo potente, la preoccupazione per il futuro dei figli disabili. Spesso questi genitori utilizzano il termine " Dopo di noi " per esprimere questo timore verso il futuro: “Come faranno a vivere senza di noi? Cosa succederà dopo di noi ? ”. La sensazione che immaginiamo debbano provare i genitori nel pensare al momento in cui non potranno più prendersi cura dei figli disabili è il vuoto, l’abisso, il panico, la fuga, la rimozione del pensiero. E’ talmente alta la preoccupazione per il futuro dei figli che i genitori pensano che sarebbe meglio non separarsi mai da loro; non riescono a concepire una loro vita futura, indipendente dalla famiglia, tanto che ci sono genitori che evitano di pensare oltre il quotidiano e che non osano fare progetti, che vedono solo nel miracolo la soluzione ad ogni problema . Tutta l’energia mostrata dai genitori, nei primi anni di vita dei loro figli, sembra improvvisamente congelarsi ed essere dedicata più alla gestione quotidiana che ad una attiva programmazione per il futuro. Numerosi studi tra cui quelli di McCallion e McCarron (2004) e Walsh (2005) confermano chele persone disabili hanno elevati rischi di decadimento dei livelli sia di salute fisica, sia di funzionalità sensoriale e cognitiva, per cui è fondamentale la necessità di mantenere e sviluppare le abilità nelle persone disabili, per evitare il precoce decadimento. I giovani disabili, d’altra parte, pongono domande e bisogni che però sono difficili da soddisfare dato l’avanzamento dell’età dei genitori; necessitano di nuove opportunità e soprattutto di un nuovo modo di essere considerati come persone adulte in grado di fare le proprie scelte e di poter vivere in totale e/o parziale autonomia. Se ascoltati, infatti, i disabili parlano della loro sofferenza nel realizzare che, anche in età adulta, non viene loro permesso di operare scelte, di prendere decisioni, poiché si ritiene non siano in grado di affrontare un’autonomia reale. Parlano del conflitto tra desiderio ed incapacità, della dipendenza protratta come costrizione (oltre che come sostegno e aiuto), della difficoltà a sentirsi trattati come chi non può capire oppure sentirsi pressati da richieste impossibili. Possibili conseguenze a queste esperienze mentali possono esser l’aggressività, la rabbia o la depressione. Il diventare adulto si scontra spesso con la tendenza comune a genitori, operatori e della società, a concepire il disabile come eterno bambino, non investendo nè a livello di immaginario, nè attraverso concrete azioni educative sulla sua emancipazione. Chi ascolta i vissuti dei genitori rispetto all’ adultità dei figli con disabilità trova spesso una più o meno consapevole percezione di “vederli sempre uguali”, di “vivere alla giornata”, di “concentrarsi sui bisogni del presente”, di ansia per il futuro, per ciò che accadrà, nel timore della debolezza e dello smarrimento del figlio, per i dubbi sulla capacità della famiglia e della società di prendersi cura veramente del figlio. Nonostante gli studi di Llewellyn abbiano concluso che le famiglie con figli disabili, anche gravi non vogliono una collocazione del figlio in istituto e nonostante le persone con disabilità mentale di età avanzata che sono stati sottoposti continuamente a training di mantenimento delle abilità cognitive mostrino un minore declino in tutte le abilità, le famiglie devono comunque essere accompagnate in questo percorso verso l’acquisizione dell’autonomia.I genitori, infatti sentono che i loro figli disabili, rispetto ai normodotati, saranno in difficoltà ad emanciparsi da loro, ponendo un’alta carica di ansia nel proiettarsi verso prospettive future. Inoltre Sorrentino (2009) evidenzia, che in presenza di una disabilità, possano esserci disturbi dell’attaccamento. L'attaccamento è quel comportamento che motiva il bambino a cercare la vicinanza fisica dei genitori, o di chi se ne prende principalmente cura, quando egli vive emozioni di paura, di sofferenza fisica e di dolore emotivo. Questo sistema comportamentale, che si attiva fin dalla nascita, è presente per tutta la vita e regola la modalità con la quale, anche da adulti saranno gestite le emozioni di paura, sofferenza e dolore. Questo sistema può crescere non equilibrato, in quanto le diagnosi di disabilità pongono spesso pesanti interferenze alle risposte naturali di questo legame, deprimendo la madre e disorientandola di fronte ai segnali fuori norma del figlio. Il figlio, anche a causa dei deficit delle sue dotazioni, può essere angosciato da segnali variabili che rendono difficile cogliere una prevedibilità delle risposte relazionali. Tali disturbi dell’attaccamento correlati ad una diagnosi di deficit o di disabilità peggiorano i risultati riabilitativi e amplificano i disturbi dell’adattamento. Per affrontare queste difficoltà vi è la necessità di un sostegno alle famiglie: spesso è la presenza di un equipe multiprofessionale che rassicura la famiglia. I gruppi di lavoro più avanzati utilizzano i contributi riabilitativi di più figure professionali (neuropsichiatra, assistente sociale, fisioterapista, ecc.). Anche lo psicologo-psicoterapeuta, che in passato, era spesso relegato solo al ruolo di somministratore di test, può diventare una figura centrale in un’equipe riabilitativa, offrendo consulenza alla famiglia nel suo complesso, esercitando un ruolo terapeutico diretto al paziente e praticando un sostegno alla genitorialità e alla coniugalità. Fondamentale è la partecipazione di entrambi i genitori, a momenti di verifica per renderli consapevoli dell’andamento del lavoro con il loro figlio e attivi collaboratori sul versante educativo. Anche la persona disabile deve essere invitata a partecipare alle riunioni di verifica per renderla consapevole dei programmi che la riguardano. Nel caso la persona disabile fosse gestita in collaborazione con servizi territoriali, è bene che il team comprenda tutti gli operatori implicati nel progetto riabilitativo. Utili possono risultare anche i gruppi di auto-aiuto, costituiti da alcune coppie di genitori con figli disabili, che con la supervisione di uno psicoterapeuta in incontri a cadenza regolare, favoriscono un vissuto di partecipazione che sconfigge la solitudine e aiuta i presenti a individuare strategie per affrontare gli interrogativi inerenti le autonomie. Questa condizione di adultità richiede una complessa maturazione psicologica e affettiva: la persona diventerà adulta nella misura in cui la sua identità sarà autonoma e stabile; la sua separazione/individuazione dalle persone adulte della sua famiglia di origine potrà dirsi sufficientemente compiuta, quando le sue capacità progettuali elaboreranno sequenze di azioni per realizzarli, quando sarà in grado di gestirsi autonomamente la qualità del suo tempo, quando sarà in grado di accettare/costruire compromessi tra desideri e realtà, quando saprà rivestire ruoli attesi e prescrittivi in vari contesti , quando saprà elaborare un suo individuale e originale percorso affettivo, sessuale e familiare. Da una ricerca condotta da Henninger e Taylor (2014) si evince che, nonostante la letteratura definisca la condizione adulta come il raggiungimento di alcune competenze quali finire la scuola, trovare un lavoro, sposarsi e avere una famiglia, i genitori con figli disabili, ampliano questo concetto definendo il raggiungimento di una condizione adulta come: la capacità di avere un’occupazione o un ruolo funzionale nella società (inteso sia come essere in grado di trovare un lavoro e avere abilità lavorative ma anche essere impegnato in un lavoro con supporto o svolgere del volontariato; essere in grado di abitare fuori casa senza genitori (sia in modo indipendente che in gruppo appartamento con supporto); creare relazioni con i pari (dando più importanza alle relazioni che alle attività sociali a cui si partecipa); acquisire le abilità richieste per un buon funzionamento giornaliero (tra queste abilità sono comprese la capacità di usare il denaro; il cucinare e pagare le bollette in tempo); continuare ad avere impegni di tipo intellettuale per la crescita personale; vivere in modo indipendente utilizzando i supporti necessari; costruire relazioni positive con la comunità partecipandovi; utilizzare i mezzi pubblici; raggiungere un benessere psicologico; costruire relazioni affettive e creare una famiglia. Fare un progetto di vita è quindi pensare in questa prospettiva futura. Sempre più famiglie si pongono il problema del preparare e del facilitare il grande distacco tra loro e il figlio e lo fanno realizzando forme di soggiorno temporaneo presso piccole comunità che permettono di allenare i disabili ad una vita senza genitori. Si tratta di esperienze di vita che aiutino il figlio a fare qualche passo significativo di autonomia e nello stesso tempo accompagnino i familiari ad elaborare gradualmente la sua indipendenza e lo sviluppo di competenze adulte. Per ogni persona con disabilità si dovrebbe prevedere un progetto flessibile, con possibilità di frequenza in comunità, come forma di progressivo adattamento anche per un certo periodo di tempo o per alcuni giorni alla settimana. Qualunque siano le condizioni della persona bisognerebbe sempre stimolare nei limiti del possibile percorsi di autonomia e autodeterminazione che porti a forme anche semplici di regolazione personale sulle condizioni di vita . Lifshitz e Merrick (2003) hanno documentato una migliore vita sociale ed attività del tempo libero quando la residenza delle persone avviene in servizi di dimensioni limitate, in cui sono stimolate attività sociali e sono previsti interventi su competenze cognitive e iniziative per un’adeguata gestione del tempo libero. All’ interno di tali servizi devono essere promosse attività concrete, funzionali alla vita in autonomia e che permettano di creare relazioni significative tra i partecipanti.